LE MENZOGNE
CHI APRI’ LE PORTE AL “TEDESCO INVASORE”.
GLI EFFETTI DEI QUARANTACINQUE GIORNI DEL GOVERNO BADOGLIO Il 25 luglio
sul suolo della Penisola c’erano solo tre divisioni tedesche, l'8 settembre
ce n’erano sedici, e costituirono due potenti armate, agli ordini di Rommel
e di Kesserling
Enzo Erra
Il generale Valentin Feuerstein
sapeva perfettamente quel che doveva fare. Raro privilegio, il suo, in
quella notte tra il 25 e il 26 luglio 1943, in cui ben pochi afferravano
quanto stava accadendo e avevano una vaga idea di quanto sarebbe accaduto.
Badoglio si era insediato come capo del governo, e per prepararsi a fare
la pace aveva dichiarato che avrebbe fatto la guerra; poi, tanto per cambiare,
se ne era andato a dormire. Mussolini era nella caserma dei carabinieri
in via Legnano, e non si era ancora reso conto di essere in stato d'arresto.
Il generale Lusana, comandante della "Centauro", non riusciva
a prendere una decisione, e aveva chiesto lumi al suo diretto superiore,
generale Galbiati, che era più indeciso di lui. Ciano stava passando
la notte a casa di Filippo Anfuso, che gli aveva offerto rifugio. Credeva
ancora di avere in mano le fila della congiura e in auto aveva detto all'ospite:
«Il ministero è già fatto. Io per ora starò
da parte, poi si vedrà». I capi di stato maggiore inglesi
e americani, che da tre giorni stavano discutendo con Churchill se attaccare
o no la penisola italiana dopo l'imminente conclusione delle operazioni
in Sicilia, avevano quasi deciso per il no. Ora però la nuova situazione,
e il prevedibile crollo verticale dell’Italia, davano da riflettere. Prima
di decidere, avrebbero riflettuto ancora po'.
Il generale Feuerstein., solo
fra tanti, non aveva di questi problemi. Gli erano state date direttive
precise, e non doveva fare altro che eseguirle. All'alba del 26, reparti
della 44a divisione, e della 136a brigata di montagna si mossero ai suoi
ordini, occuparono i valichi tra la Germania e l'Italia e presidiarono
la linea ferroviaria del Brennero. Agirono con le armi in pugno, ma non
furono costretti a usarle perché nessuno aveva ordinato ai soldati
italiani di usare le proprie. Convogli carichi di truppe cominciarono a
scorrere sui binari, mentre colonne di automezzi e di carri armati scesero
ininterrottamente lungo la rotabile. Entrava così in Italia quello
che nel mezzo secolo seguente sarebbe stato definito "il tedesco invasore".
Non da quel momento, però, perché ancora per quarantacinque
giorni il suddetto "tedesco" non venne trattato da "invasore"
ma da alleato, i suoi movimenti non vennero intralciati ma favoriti, le
sue divisioni entrarono l'una dopo l'altra liberamente e andarono a collocarsi
dove vollero, senza limiti e senza controlli.
Invasione pacifica
Questa fu dal 25 luglio all'8
settembre 1943, l’”invasione” tedesca, la più pacifica della nostra
storia, meno contrastata della famosa "guerra del gesso". La
caduta di Mussolini l'aveva resa al tempo stesso inevitabile e possile.
Inevitabile, perché il proposito italiano di cambiare fronte era
insito nel fatto stesso di aver cambiato regime, e i tedeschi dovevano
premunirsi in tempo, se non volevano trovarsi il nemico alle porte di casa.
Possibile, perché il Duce, fino a quando era stato a Palazzo Venezia,
aveva limitato la presenza tedesca in Italia alle sole esigenze delle operazioni
belliche. Pur avendo perduto in Tunisia tutte le grandi unità efficienti
e operative, quando Hitler gli aveva offerto cinque divisioni di nuovo
impiego da schierare in Sicilia in vista dell'eventuale sbarco nemico,
Mussolini ne aveva accettata soltanto una, in aggiunta alle due che già
vi si trovavano. Poi l'andamento disastroso della campagna lo aveva costretto
ad accogliere altri rinforzi. Così, le divisioni tedesche che combattevano
sul fronte siciliano erano salite a quattro, ma ancora Mussolini non aveva
consentito che venissero riunite in corpo d'armata sotto un comando unico.
Due divisioni tedesche, inoltre, si trovavano in Calabria dirette verso
la Sicilia, e un'altra ancora era presso Orvieto.
Ancora nella giornata del
25 luglio, dunque, nella penisola italiana c'erano solo tre divisioni tedesche,
due delle quali all’estremità meridionale, e in marcia di trasferimento
verso l'Isola: non potevano quindi rappresentare un pericolo per nessuno,
e nemmeno un problema. Ma quando Mussolini non fu più al suo posto,
la situazione cambiò di colpo, in brevissimo tempo. Hitler fece
immediatamente rifluire verso nord le due divisioni che erano in Calabria,
e solo le insistenza di Rommel e di Doenitz gli impedirono di richiamare
sul continente le quattro impegnate in Sicilia. Due divisioni intanto passarono
attraverso il Brennero, raggiunte da altre due richiamate dal fronte orientale;
altre quattro divisioni vennero dalla Francia, e queste otto grandi unità
costituirono il "gruppo di armate B", dislocato nell’Italia settentrionale.
La divisione che era presso Orvieto si spostò verso Roma, e venne
raggiunta a Ostia da una divisione paracadutisti proveniente dalla Francia.
Accanto alla capitale, così, si formò un corpo d'armata speciale,
che venne messo agli ordini del generale Student. A metà agosto,
intanto, la campagna di Sicilia si concluse, e le quattro divisioni tedesche
che erano nell’isola ripiegarono sul continente. Erano sconnesse, decimate
e non più operative, ma il continuo afflusso di rinforzi e rifornimenti
dal nord le rimise rapidamente in piena efficienza. Insieme alle due che
già erano sul posto formarono la Xa armata guidata dal generale
Von Vietinghoff, e il comando delle forze tedesche nel centro-sud venne
assunto da Kesserling, mentre Rommel assumeva il comando delle forze affluite
al nord.
Dopo
la caduta del fascismo, le forze tedesche entrarono in massa e pacificamente
in Italia. Qui soldati della Wehrmacht in Piazza S. Pietro
La “guerra continua”
Dal 25 luglio erano
passati poco più di venti giorni , e sul suolo della penisola non
c'erano più tre divisioni tedesche, ma sedici, tutte motorizzate
e in parte corazzate, raggruppate in due poderose forze d'urto. Il governo
fascista, abbandonando il potere, aveva lasciato in eredità un'Italia
sovrana e padrona del suo territorio. Il governo antifascista si trovava
ora precariamente accampato, in un'Italia occupata e presidiata, che militarmente
già non controllava più. Questa la verità dei fatti,
misurabile e non contestabile, e dovrebbe bastare a confutare le falsità
che da sempre si dicono su chi abbia “chiamato i tedeschi in Italia".
A chiamarli non furono i fascisti, che non c'erano più quando i
tedeschi calarono in massa. E se gli antifascisti certamente non li chiamarono,
altrettanto certamente li attirarono e dopo averli attirati non li fermarono.
Che sia stato il 25 luglio,
con le sue fin troppo prevedibili conseguenze politiche e militari, a spingere
e quasi costringere i tedeschi ad assicurarsi il controllo del territorio
italiano, tanto è evidente che non si dovrebbe nemmeno discutere.
Dal loro comportamento, e dalla rapidità con cui si mossero, si
vedono chiaramente due cose: che si aspettavano, o almeno prevedevano,
la crisi del regime fascista, e che non dubitarono nemmeno per un attimo
sulle reali intenzioni di Badoglio e sul suo patetico "la guerra continua".
Ai loro occhi era assolutamente evidente che l’Italia stava per passare
nel campo angloamericano, né si può dire, alla luce dei fatti,
che abbiano sospettato ingiustamente e a torto. Ma questo voleva dire,
per loro, che gli angloamericani sarebbero arrivati senza colpo ferire
fino alle Alpi, avrebbero piazzato le basi dei loro bombardieri a pochi
chilometri dal cuore della Germania, e avrebbero potuto attaccare da tergo
tutto il dispositivo tedesco nei Balcani, se avessero ritenuto opportuno
farlo.
Si trattava dunque di
una mortale minaccia, e le misure che i tedeschi presero per fronteggiarla
erano assolutamente indispensabili. Non le adottarono, peraltro, a cuor
leggero né senza gravi conseguenze, di cui si resero subito conto.
Nel suo diario, alla data del 9 settembre, Goebbels cita questa osservazione
di Hitler: «Se avessimo 15, 20 divisioni intatte e di prima classe
da gettare in Oriente, ci riuscirebbe senza dubbio di battere e respingere
i sovietici. Ma queste 15, 20 divisioni oggi dobbiamo purtroppo impiegarle
nel fronte italiano». In altre parole, i tedeschi si trovarono a
scegliere: o sguarnivano pericolosamente il fronte orientale o abbandonavano
il teatro italiano. Scelsero la prima ipotesi, che consideravano evidentemente
meno nociva. Ma proprio dall'alto costo che consapevolmente pagarono si
vede che altro non potevano fare.
Fatale conseguenza
Per intendere fino in
fondo il senso di quello che avvenne, bisogna dunque considerare che la
penetrazione tedesca con forze tali da neutralizzare facilmente l'esercito
italiano fu una fatale conseguenza del 25 luglio, e del tentativo di portare
l'Italia fuori dal conflitto, che ne era all'origine. Tentativo irrealizzabile,
comunque e da chiunque fosse stato attuato. L’Italia non poteva uscire
dalla guerra se non arrendendosi senza condizioni, (la formula inconditional
surrender era fin d'allora ben nota) e quindi consegnando il suo territorio
agli angloamericani: cosa, questa, che i tedeschi non potevano consentire
senza suicidarsi. D'altra parte, è chiaro che la destituzione di
Mussolini e la liquidazione del regime fascista trovano spiegazione -anche
se non giustificazione- solo con il proposito di deporre le armi, o meglio
di passare nel campo avverso: l'idea di un'Italia antifascista che prende
il posto di quella fascista accanto alla Germania e contro gli occidentali
è tanto grottesca che non si può nemmeno prendere in esame.
Da Tarvisio a Bologna
In questa prospettiva
si vede bene che il 25 luglio conteneva già l'8 settembre, e che
dunque al primo, e non al secondo, va fatta risalire l'origine di quello
che De Felice definisce «vizio d'origine della Repubblica»,
e Galli della Loggia «morte della Patria». Si può obiettare
che Badoglio avrebbe potuto fermare i tedeschi prima che varcassero i confini,
e che se lo avesse fatto, nulla di irreparabile sarebbe avvenuto. Ma il
nuovo governo si costituì nella giornata del 26, tenne la sua prima
riunione il 27, e solo allora prese i primi elementari provvedimenti relativi
alla sua stessa struttura, e al nuovo corso della vita nazionale. Nel frattempo,
tutti i valichi di frontiera, a nord, a occidente e a oriente erano già
in mano ai tedeschi, e una rilevante forza era passata al di qua delle
Alpi.
Nei documenti e nei memoriali,
del resto, nessuna traccia o indizio lascia supporre che Badoglio e i suoi
collaboratori abbiano in qualche modo tentato, o almeno pensato, di fermare
o limitare l’irruzione tedesca. La loro sola preoccupazione -per quanto
incredibile possa sembrare- era quella di non compiere nessun gesto che
potesse scoprire il loro gioco e indurre i tedeschi a sospettare di loro.
Come se non fosse evidente, da quel che i tedeschi stavano facendo, che
già avevano capito o almeno intuito tutto. Eppure, ancora il 17
agosto, in una riunione al Quirinale, si decise di mantenere intatto il
dispositivo contro gli angloamericani, e di prendere verso i tedeschi solo
quei provvedimenti «che non avessero potuto apparire provocatori».
Non occorre qui ripetere quello
che più volte è stato scritto, e dalle fonti più diverse,
sui due convegni di Tarvisio e di Bologna (rispettivamente il 6 e il 15
agosto) in cui i rappresentanti di Badoglio tentarono di convincere i tedeschi
a riunire le loro forze nel sud, lasciando il nord, e le vie di comunicazione,
in mano italiana: tentativo talmente scoperto da rasentare quella pennellata
di grottesco che sempre accompagna la tragedia. Come poi scrisse Kesserling,
le sempre più insistenti richieste italiane «non potevano
avere altro scopo che quello di concentrare le divisioni tedesche nell’Italia
meridionale, per poterle consegnare agli alleati al momento della capitolazione».
Così i tedeschi le valutarono, e in seguito a questo disposero le
loro contromosse.
Alla fine di agosto,
Rommel schierò le sue forze in parte a semicerchio intorno a La
Spezia, in parte nella Venezia Giulia e sui valichi degli Appennini. Kesserling
dispose due divisioni in Calabria, tre in Campania, una in Puglia, due
presso Roma. La trappola pronta a stritolare l'esercito italiano era montata,
senza che nessuno se ne desse pensiero. A tutti i comandi tedeschi era
stato comunicato un piano che dovevano mettere in funzione appena avessero
udito per radio la parola "Acse". Da parte italiana c'era una
"memoria 44", che i comandanti d'Armata lessero per sommi capi
ai comandanti di Corpo d'Armata, senza nemmeno permettere che prendessero
appunti. La "memoria" sarebbe dovuta entrare in funzione appena
giunto un fonogramma di conferma, che Roatta diramò l'l1 settembre
da Brindisi, quando l'esercito italiano non esisteva più. La parola
"Acse", invece, attraversò l'etere la sera dell'8 settembre,
appena si seppe dell’armistizio. I tedeschi, dai minimi gradi ai più
alti, sepevano quel che dovevano fare. E, come il generale Feuerstein la
sera del 25 luglio, erano i soli a saperlo.
STORIA VERITÀ N. 10 Gennaio Febbraio
1998 (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)